L’emergenza, la gioia, la notte; ovvero il reale, il difficile, il silenzio – di questo narrano le poesie di Maurizio Bacchilega, che dopo otto anni dalla sua prima opera (Paesaggi del mondo e dell’anima, L’Arcolaio, 2010), sceglie di «tornare a pensare» attraverso l’inchiostro.
Le poesie (o i pensieri) si dividono in «Le poesie dell’emergenza», «Della gioia», «Elogio della notte»: «Le poesie dell’emergenza», la cui narrazione è «quasi, per forza, in forma di prosa», gettano immediatamente il lettore nella realtà quotidiana, il cui squallore, invece che ammutolire e annientare la poesia, la genera (e quindi dimostra che l’emergenza può essere cantata in versi). È una poesia del disincanto, del disagio, dell’analisi senza pietà delle tristezze in cui ci immergiamo senza resistere e a cui siamo silenziosamente assuefatti.
L’emergenza è, dunque, ciò che ci rende ciechi e sordi e lontani dalle meraviglie silenziose che popolano il nostro quotidiano. È di questi tenui momenti ignorati che cantano le poesie «della gioia», difficile tentativo di narrare con parole ciò che dalle parole fugge: la «gioia» e la «pienezza». Infine, è nella notte e nel suo «elogio» che la raccolta si chiude e la catarsi è possibile: la notte è, infatti, la pausa, il vuoto momentaneo e ciclico, il tempo regalato al pensiero e alla concentrazione e strappato ai tecnicismi e alle incombenze del giorno.
«Che lusso scrivere la notte, / e leggere anche, / perché nulla del giorno / questo brivido vale.»
La poesia è sopra ogni cosa il mezzo per capire e capirsi, oggi dimenticato «in qualche cassetto / troppo pieno di oggetti / in qualche momento / sfuggito ai programmi / e agli orologi». La poesia che il poeta ha perso e che spera di incontrare ancora è la parola che abbiamo tutti perduto e che dobbiamo riconquistare per (ri)trovare noi stessi.
Maurizio Bacchilega, incoraggiando un «tornare a pensare» , (forse) inconsapevolmente mostra al lettore quanto la poesia ci insegni non solo a pensare, ma anche a vivere, consapevoli a pieno della nostra esistenza e fiduciosi di poter non dire, alla fine di tutto:
«”siamo stati tanto vigili / da non accorgerci di niente”».
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