Qualche anno fa, mentre ero in viaggio fra Firenze e Roma in treno, mi capitò un fatto strano, che dapprima suscitò in me una specie di divertito imbarazzo, ma, via via che quell’episodio di sedimentava nella mia memoria, finì per acquisire un ruolo sempre più simbolico e determinante.
Ero salito sulla Freccia Rossa alla stazione di Bologna.
Ricordo che me ne stavo comodamente seduto a leggere un fumetto di Ken Parker, immerso nella storia, anche se, in verità, distratto da altri pensieri che in quel periodo mi tormentavano, quando una signora molto elegante e distinta, sui sessant’anni, si sedette davanti a me.
È come se l’avessi ancora di fronte.
Indossava un sobrio ma al contempo raffinato cappotto beige, di sofisticata fattura e di morbida sagoma affusolata, che calzava perfettamente sul suo corpo, tant'è che dava l'impressione di essere stato confezionato proprio per lei.
Il viso della signora, impreziosito da una fitta trama di delicate rughe all'altezza degli angoli della bocca e delle sopracciglia, e reso particolare dalla linea regolare ed aristocratica di un naso aquilino, ingentilito da una lieve sommità di ascendenza orientale, contribuiva assieme all'abbigliamento a diffondere attorno a sé un'atmosfera vagamente trasognata, immateriale, quasi spirituale.
I suoi gesti avevano qualcosa di etereo, come un'onda lieve che si adagia sulla battigia, senza fatica, e m’infondevano una sensazione confusa, un misto di infinta rassicurante tranquillità e d'inebriante attrazione.
Si sistemò di fronte a me con grazia squisita e garbata.
Appoggiò nel sedile di fianco la sua borsa di pelle, di un vaniglia caramello con screziature d'argento che s'intonavano alla perfezione col beige del cappotto.
Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, strinse le labbra, aggrottò la fronte e, con un movimento deciso e vaporoso, estrasse dalla borsa un libro.
Con ogni probabilità, l'aveva appena comprato perché conservava ancora il cellophane trasparente della confezione.
Senza degnarmi di uno sguardo, scartò la confezione del libro, la accartocciò con austera lentezza e aprì le prime pagine del romanzo.
Non riuscii a trattenermi.
La cominciai ad osservare in modo quasi molesto.
Le sue pupille scivolavano rapidamente sulle righe del testo, con scatti ipnotici e vagamente nervosi, come catturati in un magnetico incantamento.
… e… ora tutto accade in una forma estasiata, come dentro i contorni di un sogno…
La storia deve imprigionarla in una rete davvero irresistibile, perché così trascorre tutto il viaggio: lì, seduta davanti a me, stregata dalla lettura, senza mai distogliere gli occhi, neanche per un momento, dalle pagine del romanzo.
Neppure il controllore è capace di intaccare l'imperturbabile concentrazione della signora, che si limita a far scivolare sulle mani dell'uomo il biglietto senza alzare gli occhi dal libro.
L'intero viaggio è dominato da questa bizzarra e stravagante danza a due: da una parte la mia irresistibile curiosità, dall'altra la statuaria immobilità della donna, immersa nella magia del racconto.
Ma il fatto più strano deve ancora capitare.
Arriviamo alla stazione di Roma Termini.
La voce metallica dell'altoparlante annuncia la sosta del treno.
Ecco. Tutti ci alziamo. Tutti i passeggeri della carrozza. Proprio tutti. Persino la misteriosa lettrice.
Finalmente chiude il libro, si aggiusta il cappotto, si sistema la profumata sciarpa turchese al collo, afferra la borsa, si alza in piedi e...
La osservo mentre, con un movimento distratto e deciso, depone il libro sul sedile dello scompartimento, con il frontespizio rivolto verso il basso.
Mentre sta guadagnando l'uscita, con la medesima andatura ondosa e regale di una creatura sognante, mi vedo costretto a pronunciare queste parole, con un tono di voce strozzato:
- Signora, mi scusi, ha dimenticato il libro...
Finalmente indirizza i suoi occhi sui miei.
Sono di un verde bottiglia, luccicante, così vivido e guizzante che sono costretto ad abbassare lo sguardo:
- La ringrazio - ribatte e il suono della sua voce, nitido e cristallino, un po' cavernoso, non è meno seducente dell'espressone del suo viso - ma non l'ho affatto dimenticato!
- Ma… è rimasto lì, sul sedile – tento di replicare.
- Certo. L'ho lasciato apposta.
- Eppure - balbetto timoroso - mi sembrava che fosse molto interessata alla storia...
- Infatti. Proprio per questo! Ogni volta che inizio un libro avvincente non voglio conoscere il suo svolgimento. O meglio: lo svolgimento che vuole darmi il suo autore.
- Come sarebbe? - e questa volta la mia domanda ha un'intonazione urgente, quasi allarmata.
- Sì - mi spiega compiacente -. Se un libro mi intriga molto, non voglio andare oltre i primi capitoli e non voglio farmi condurre dalla soluzione del narratore. Mi piace continuare da sola. Mi piace congetturare i possibili infiniti sviluppi. Mi piace lasciare il libro così, sul sedile di un treno, ad un destino imperscrutabile, sperando che un altro viaggiatore lo prenda, lo legga e magari, a sua volta, continui lo sviluppo della storia a suo modo, abbandonando il libro proprio come ho fatto io...
Inutile dire quali sentimenti contrapposti mi assediano.
Sconcerto, sorpresa, divertimento, incredulità, fascino.
Ed è così anche ora, mentre sto scrivendo...
Non è cambiato niente da allora, ogni volta che ripenso a quel singolare episodio.
Ogni volta che con la memoria ritorno alla stessa scena, si sviluppa sempre lo stesso gomitolo di riflessioni: le storie sono così... sono stanze aperte, inesauribili, sottoposte a immagini, spunti, idee, suggestioni, giochi infinti, a seconda delle persone che vi entrano e che vi si avventurano in narrazioni personali e soggettive.
Le storie sono così: luoghi di passaggio.
Luoghi visitati da persone diverse e riproposti da diversi punti di vista.
Un dono al mondo.
Come un libro lasciato sul sedile di uno scompartimento ferroviario.
Ed è esattamente su questo motivo ispiratore che ho condotto, sabato 21 maggio 2016, il laboratorio "Memoria, dono, identità", al Polo formativo Ausl di Imola, organizzato dalla Università del Volontariato del Csv Volabo e dalla Associazone Oltre la siepe.
La domanda provocatoria che ho posto al gruppo dei corsisti, piuttosto numerosi, è stata: la narrazione è un'esperienza individuale o una costruzione di comunità?
Attorno a questa domanda non abbiamo voluto aprire un teorico dibattito (come si potrebbe prevedere) ma un fattivo e artigianale laboratorio, un’officina concreta di lavoro: da uno spunto narrativo iniziale che ho sottoposto, ogni personaggio del gruppo proponeva uno sviluppo, secondo le regole fondamentali di un intreccio strutturale, e via via è andata germogliando e crescendo una storia.
Un corsista metteva una battuta di dialogo, un altro una nota di paesaggio, un altro la caratterizzazione di un personaggio.
Ognuno arricchiva il testo con il proprio immaginario, come in un dipinto del Rinascimento, in una corale officina di pittura dove un artista contribuiva a dipingere la mano, un altro il tavolo, un altro il profilo di una montagna.
In altre parole, abbiamo sperimentato ciò che la misteriosa signora del treno voleva suggerirmi, tanti anni fa: l'idea che la scrittura non è un'operazione solitaria, chiusa in se stessa, rigida, ma al contrario è una fucina di ispirazioni diverse, un cenacolo di immagini, una miniera ribollente e strepitosa di suggestioni, atmosfere, esperienze di tante persone, rubate alla vita quotidiana...
Insomma, il dono della vita di ognuno che, in una comunità fibrillante, si fa racconto collettivo.
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