Potremmo aprire così, cari lettori, secondo la migliore tradizione della affabulazione romanzesca, il nostro racconto.
C’era una volta la narrazione.
E in effetti, la più antica magica storia di tutti i tempi, d’una forza seduttiva intramontabile, narra di una giovane donna, scaltra e curiosa, di nome Shahrazàd, figlia maggiore del gran visir, che per placare l’ira omicida contro le donne del re persiano Shahriyàr escogita un piano: ogni sera racconta al sultano una storia, rimandando però il finale al giorno dopo, in modo che il sovrano resti in sospeso, costantemente in attesa dell’epilogo, per “mille e una notte” (forma simbolica per indicare un tempo imprecisato di tempo), fino a quando egli si innamorerà della fanciulla e le renderà salva la vita.
Insomma, una meravigliosa metafora del potere del racconto, della capacità evocativa della parola, della funzione salvifica e liberatoria della narrazione: il dono per eccellenza.
È quello che capita, non troppo diversamente, nel Proemio del Decameron di Giovanni Boccaccio, una sorta di manifesto letterario, dove l’autore dichiara che le sue novelle, ricche di un invincibile potere di incantamento, sono destinate alle donne, imprigionate nelle loro camere dai mariti, dai padri, dai fratelli: e dunque chi più di loro si merita il “dono” della narrazione?
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro à dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri, dà piaceri, dà comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, [...] volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri.
E arriviamo così, grazie alla guida di un Maestro della parola, al cuore del nostro discorso: la scrittura è un dono.
Un dono, non meno prezioso e utile, non meno fondamentale e decisivo, di un oggetto materiale.
È un dono perché conserva in sé un augurio di salute, facilita un cammino (diremmo quasi terapeutico) di conoscenza e liberazione, invita ad un arricchimento della cultura e della bellezza dell’anima.
Donare un racconto significa stimolare le suggestioni più intime, accarezzare le corde della creatività e della evasione, sussurrare alla mente dimensioni fantastiche e immaginifiche.
Significa tenere il lettore per mano e accompagnarlo nel territorio del gioco, della magia, della curiosità, della sorpresa, dell’amore. E ciò comporta gratuità, empatia, sentimento, dedizione, spirito di condivisione, forse anche coraggio.
Sono stati questi gli insostituibili punti di riferimento con cui abbiamo condotto il corso di Scrittura creativa “Creare – (ri)creare”, che nel febbraio del 2016 ad Imola mi ha invitato a tenere l’associazione Volabo e che ha visto, fin dall’inizio, una significativa affluenza di iscritti (più di trenta).
Come tenere in piedi un gruppo così nutrito e variopinto?
Come dare continuità nel tempo alla relazione intellettuale ed umana fra tante persone, dai caratteri e sensibilità diversi?
Come condividere assieme un progetto così ambizioso come la narrazione?
Sono state alcune fra le infinite domande che mi sono cominciate a ronzare in testa (non di rado - ora posso confessarlo - anche in modo piuttosto imperioso), ma ancora una volta la letteratura mi è accorsa in aiuto: è stata la poesia, il racconto, la cultura a toglierci d’impaccio.
Dopo i primi incontri, infatti, dove mi sono limitato a fornire al gruppo alcuni basilari fondamenti della scrittura, in merito soprattutto alla costruzione di un testo, alla intelaiatura, ai giochi e alle strategie per tenere in piedi la struttura di un racconto… beh, tutto ha preso la direzione giusta: ogni autore ha proposto la propria storia e attorno alle trentina di situazioni narrative che abbiamo messo sul tavolo, ecco, si sono creati i gruppi di lavoro.
C’è stato chi ha portato avanti la propria idea.
Chi, invece, ha abbracciato l’idea di un collega e in due hanno sviluppato il racconto.
E chi, addirittura, ha creato un gruppo di tre o quattro persone, così da far germogliare, assieme, una narrazione collettiva.
Ma, in ogni caso, sempre, si è trattato di un lavoro di condivisione, giacché ad ogni incontro, due ore alla settimana, da marzo a maggio, tutti leggevamo in cerchio il prodotto della nostra creatività e tutti, in comune, esprimevamo le nostre impressioni.
Ognuno diceva la sua e si fermentava un fibrillante vulcano di intuizioni: frasi, aggettivi, immagini, moods, atmosfere… ogni testo si arricchiva, ogni istante, alla luce del fuoco incrociato delle esperienze di tutti.
Quale espressione più emblematica di dono?
La forza delle sinergie è stata così potente che, al di là degli stili diversi, al di là del risultato artistico, al di là della molteplicità dei linguaggi (e ce ne sono davvero tanti, mantenuti nella loro primigenia freschezza… un po’ come ci avrebbe consigliato un altro Maestro della acrobazia della parola, che con il suo Ulisse ci ha dato prova di quanto la scrittura si possa plasmare in infinite declinazioni, sfaccettature, trasformazioni… sto parlando, ovviamente, di James Joyce), al di là, dicevo, della eleganza letteraria dei testi, alcuni più intimi commossi ripiegati su se stessi, altri più dinamici e movimentati, altri più descrittivi e didascalici, altri ancora più ruvidi, divertiti, pirotecnici, in buona sostanza ciò che è emerso è il senso di un lavoro di profonda, direi quasi affettuosa, collaborazione.
Un dono nel vero senso della parola.
Un dono che tutti noi, sono certo, porteremo sempre nel cuore.
Ed è questa, in ultima analisi, la conquista più bella che abbiamo raggiunto.
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